Fisiopatologia cerebellare in schizofrenia e disturbo bipolare

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 13 aprile 2024.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Studi recenti hanno dimostrato che anomalie della connettività funzionale (FC) del cervelletto sono implicate nella fisiopatologia della schizofrenia e del disturbo bipolare, ossia due fra le più importanti diagnosi della clinica psichiatrica classica, che rappresentano due modelli di patologia dell’encefalo in grado di generare disturbi psichici. Tuttavia, in questi studi i pattern di disconnettività cerebellare e la loro associazione con la fisiopatologia del cervelletto e i sintomi clinici non sono stati definiti e chiariti.

Giulia Cattarinussi, Annabella Di Giorgio e Fabio Sambataro hanno indagato la connettività funzionale del cervelletto nella schizofrenia e nel disturbo bipolare I, rilevando alterazioni e mettendole in rapporto con le prestazioni cognitive e le manifestazioni cliniche, in particolare i sintomi psicotici.

(Cattarinussi G. et al., Cerebellar dysconnectivity in schizophrenia and bipolar disorder is associated with cognitive and clinical variables. Schizophrenia Research – Epub ahead of print doi: 10.1016/j.schres.2024.03.039, April 6, 2024).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Neuroscience, University of Padova, Padova (Italia); Padova Neuroscience Center, University of Padova, Padova (Italia); Department of Psychological Medicine, Institute of Psychiatry, Psychology and Neuroscience, King’s College Londra, Londra (Regno Unito); Department of Mental Health and Addictions, ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo (Italia).

Per introdurre al disturbo bipolare, si riportano i pregevoli cenni storici di Giovanna Rezzoni che risalgono al primo secolo dell’era cristiana[1].

Areteo, un medico della Cappadocia, un regno dell’Asia Minore che faceva parte dell’Impero Romano, verso la fine del primo secolo d.C.[2] descrisse pazienti affetti da un male della psiche che li portava periodicamente all’abbattimento e all’esaltazione; le sue descrizioni della sintomatologia sono così precise, accurate e dettagliate che Silvano Arieti, nel suo celebre trattato di psichiatria dell’American Psychiatric Association, le citava senza ombra di dubbio come il primo resoconto medico della psicosi maniaco-depressiva della storia. Areteo riconobbe l’esistenza di un rapporto tra le due fasi di quello che oggi chiamiamo disturbo bipolare, e le descrisse come sintomatologia della stessa malattia mentale. Osservò che in età giovanile i pazienti sono più inclini alle manifestazioni di eccitazione, con rapidità di pensiero, azione ed eloquio, mentre nell’età senile tendono maggiormente alla depressione, che all’epoca si attribuiva, seguendo Ippocrate, ad eccesso dell’umore nero, melania chole, da cui “melancolia”, diventato poi in italiano malinconia. Areteo sosteneva che la mania non è sempre una reazione alla fase depressiva, ma può aversi come espressione propria della malattia. Ecco cosa scriveva in proposito Silvano Arieti nel 1966: “Sembra quindi che Areteo abbia anticipato di almeno diciassette secoli Emil Kraepelin. In un certo senso andò ancora più lontano di lui, perché ritenne che le remissioni spontanee non dessero affidamento. Il carattere intermittente della malattia gli era ben chiaro. Descrisse anche molto bene gli atteggiamenti religiosi, con il senso di colpa e di autosacrificio del melanconico e il comportamento gaio e iperattivo del maniacale. Riferì come un grave caso di melanconia, su cui molti medici erano pessimisti, fosse guarito completamente dopo che il paziente si era innamorato”[3].

Dopo il lungo periodo di focalizzazione sugli effetti dell’ambiente, da parte della psichiatria della seconda metà del Novecento, che chiamava “reazioni” tutti i disturbi psichiatrici, distinguendoli in reazioni maggiori (psicosi) e reazioni minori (nevrosi), oggi siamo ritornati a supporre come Areteo dei fenomeni intrinseci del cervello all’origine del disturbo bipolare e, sebbene numerose varianti geniche siano state associate alla possibilità di sviluppare malattia, ancora poco si conosce dei processi e dei meccanismi che determinano queste oscillazioni del regime complessivo delle attività cerebrali alla base di ciò che chiamiamo “mente”[4].

Seguendo ancora Giovanna Rezzoni, proseguiamo nella diacronia degli eventi[5].

Le acquisizioni di Areteo furono presto ignorate e poi dimenticate, durante i secoli in cui molti disturbi mentali furono demedicalizzati e attribuiti a possessione demoniaca o a turbamento spirituale. Cameron, in una trattazione classica della storia del disturbo bipolare, classificato tra le psicosi funzionali nel secolo scorso, riporta che il carattere alternante maniacale e depressivo era stato rilevato da Bonet nel 1684, da Schacht nel 1747 e Herschel nel 1768[6]. Ma soltanto con la nascita della psichiatria contemporanea e, in particolare, in Francia con Falret nel 1851 si avrà una nuova descrizione del disturbo con il suo carattere intermittente e ciclico. Kahlbaum tentò di ricondurre melanconia e mania a due stati di vesania tipica nel 1863, ma il tentativo fu bocciato dai maggiori psichiatri del tempo che, in massima parte, attendevano gli esiti delle osservazioni del grande nosografista Kraepelin. Quest’ultimo, seguendo Falret e Baillarger, adottò i loro criteri nell’analisi di molti pazienti affetti dal disturbo periodico e, infine, elaborò il concetto di psicosi maniaco-depressiva, come una sindrome che includeva la mania semplice, molti casi di melanconia semplice e la follia circolare o periodica. Da notare che Kraepelin studiò per molto tempo questo disturbo, ma solo nella sesta edizione del suo celebre Lehrbuch der Psychiatrie (1899) – che costituiva la norma nosografica in Europa – usò per la prima volta la definizione di “follia maniaco-depressiva” e solo nell’ottava edizione (1913) sviluppò la concezione che rimase dominante nella clinica psichiatrica fino agli anni Ottanta.

Non è superfluo ricordare perché oltre ottanta anni dopo la scelta di Kraepelin, la psichiatria in America e in Europa conserva la categoria delle psicosi per il disturbo bipolare: “Il termine psicosi, però, non indica solo una gravità reale o potenziale della malattia, ma indica anche il fatto che il modo psicopatologico di vivere è, in un certo senso, accettato dal paziente”[7]. È dunque posta in questione, anche se indirettamente, la “coscienza di malattia”. In altre parole, mentre nei disturbi d’ansia, a quel tempo definiti “nevrosi”, la persona affetta riconosce l’influenza dello stato ansioso sui propri pensieri, nel bipolare spesso si assiste all’assunzione da parte del paziente di prospettive, punti di vista e atteggiamenti mentali indotti dallo stato mentale depressivo o di eccitazione maniacale, come propri. Oggi, che si tende a declinare le psicosi prioritariamente in termini di deliri e allucinazioni, non si ritiene sufficiente questo sintomo per parlare di psicosi; tuttavia, bisognerebbe ricordare la presenza di questo tratto caratteristico del disturbo bipolare, spesso ignorato nell’attuale pratica clinica[8].

Questi cenni storici introducono a una questione di notevole importanza: dal tempo di Areteo a oggi, se si esclude la distinzione in due livelli di impegno clinico (disturbo bipolare I e II), non sarebbe cambiato molto se non si fosse compreso un aspetto sottolineato spesso dalla nostra scuola neuroscientifica, ossia che ai due poli dell’umore corrispondono due regimi funzionali differenti di tutto l’organismo. È molto evidente la differenza se si prende in considerazione la fisiologia del sistema autonomo o se si studiano i profili neuroendocrinologici e neuroimmunologici[9].

Per gli approcci recenti allo studio del disturbo bipolare si suggerisce la lettura del già citato articolo dell’ottobre 2022[10] in cui si riportano stralci di osservazioni ragionate con numerose nozioni e spunti critici, tenendo presente anche l’altro articolo del 26 marzo 2022[11].

Per un’introduzione alla neurobiologia, alla genetica, alla patogenesi e alla fisiopatologia della schizofrenia si rimanda a un nostro recente articolo (Note e Notizie 09-03-24 Infiammazione nella patogenesi della schizofrenia), che include anche numerosi riferimenti ad aggiornamenti della ricerca in questo campo.

Torniamo ora allo studio qui recensito.

Giulia Cattarinussi, Annabella Di Giorgio e Fabio Sambataro hanno indagato la connettività funzionale del cervelletto in 39 pazienti diagnosticati di disturbo schizofrenico, 43 con diagnosi di disturbo bipolare di primo tipo (BD-I) e 61 volontari sani, non affetti da alcun disturbo psichiatrico o neurologico, attingendo ai dati dello stato di riposo encefalico nel corso di scansioni di risonanza magnetica nucleare funzionale (fMRI) provenienti dal Consortium for Neuropsychiatric Phenomics. Il cervelletto è stato operativamente ripartito in 10 reti funzionali, e la connettività funzionale (FC) è stata calcolata per ciascun sistema cerebellare.

Nelle persone affette da schizofrenia è stata rilevata una riduzione della FC del cervelletto con aree frontali, temporali, occipitali e talamiche. Nelle persone affette da disturbo bipolare (BD-I) la riduzione osservata della FC cerebellare è apparsa più diffusa, e riguardava le regioni cingolata, frontale, temporale, parietale, occipitale e talamica.

L’analisi ha mostrato che, in un confronto tra i quadri funzionali dei due disturbi, la schizofrenia presentava, rispetto al BD-I, una FC più elevata all’interno del cervelletto e nelle proiezioni cerebello-frontali.

Nel BD-I le prestazioni di memoria e di apprendimento verbale erano migliori che nella schizofrenia e mostravano una maggiore interazione con i pattern di FC del cervelletto.

Infine, i tre autori dello studio hanno rilevato che i pattern di accresciuta FC cortico-cerebellare erano marginalmente associati ai sintomi positivi dei pazienti.

Concludendo, dall’insieme dei dati emersi, per il cui dettaglio si rinvia al testo integrale dell’articolo originale, si deduce che i pattern di disconnettività cortico-cerebellare, distinti o condivisi tra i due disturbi, possono essere alla base di deficit cognitivi e sintomi psicotici di bipolari e schizofrenici.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-13 aprile 2024

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Note e Notizie 22-04-23 Marker depressivi ipotalamici nel disturbo bipolare.

[2] Secondo Zilboorg e Cumston, altri autori lo collocano già nel secondo secolo d.C.; secondo le notizie più antiche Areteo visse prevalentemente a Roma, nella capitale dell’impero.

[3] Silvano Arieti (editor-in-chief), Manuale di Psichiatria (in 3 volumi), Vol. I, p. 585, Boringhieri, Torino 1985.

[4] Note e Notizie 26-03-22 Nel disturbo bipolare è alterata la trascrizione sinaptica e neuroimmunitaria (v.); Note e Notizie 25-03-23 Temperatura cerebrale nei giovani con disturbo bipolare (v.).

[5] Note e Notizie 25-03-23 Temperatura cerebrale nei giovani con disturbo bipolare.

[6] Cameron N., “The Functional Psychoses” in Hunt J. McV., Personality and Behavior Disorders, vol. II, Ronald, New York 1944.

[7] Silvano Arieti (a cura di), Manuale di Psichiatria in 3 voll.: vol. I, p. 583, Boringhieri, Torino 1985.

[8] Personalmente concordo con l’orientamento di diagnosticare il “disturbo” fino a prova del contrario, ossia fino a quando non compaiono sintomi diacritici di psicosi. Ho visto numerosi psicotici bipolari, ma la loro percentuale rispetto agli affetti dal disturbo non psicotici che ho avuto in trattamento rimane bassa. È opportuno, a ulteriore chiarimento della prospettiva assunta dalla psichiatria classica di fine Novecento, sottolineare che la categoria in cui si faceva rientrare il disturbo bipolare maniaco-depressivo era quella delle “psicosi funzionali”, dunque una categoria diversa da quella della paranoia e della schizofrenia.

[9] Note e Notizie 15-10-22 Gravità del disturbo bipolare rivelata dalla disfunzione sessuale.

[10] Note e Notizie 15-10-22 Gravità del disturbo bipolare rivelata dalla disfunzione sessuale.

[11] Note e Notizie 26-03-22 Nel disturbo bipolare è alterata la trascrizione sinaptica e neuroimmunitaria.